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Lavoro: Camusso, segnali inquietanti. Vogliono lavoratori senza idee e identità

di Ufficio Stampa CGIL Siena | Febbraio 28, 2012

Lavoro: Camusso, segnali inquietanti. Vogliono lavoratori senza idee e identità

 

La leader della CGIL in una intervista al quotidiano ‘l’Unità’ avverte: “Sta passando il concetto che la democrazia sia un lusso e che i diritti siano costi. Un attacco che trova terreno fertile nella crisi della politica”

28/02/2012 da www.cgil.it

Via l’Unità dalle bacheche, fuori gli operai (due operai), malgrado siano stati reintegrati nel loro posto di lavoro dal giudice, attacchi e divieti alla FIOM.

«Alla fine tornano – ci dice Susanna Camusso, Segretario Generale della CGIL – tutte le ragioni di quella grande battaglia sindacale e politica che condusse allo Statuto dei lavoratori. Quando si diceva che la democrazia non doveva fermarsi davanti al cancello delle fabbriche, che cittadino con i tuoi diritti resti anche dentro il tuo reparto. Lo Statuto fu approvato nel ’70, nel cuore di un periodo che dopo il boom era stato ancora di crescita economica e durante cui vennero introdotti nuovi elementi di welfare e si rafforzarono i diritti di cittadinanza anche nel mondo del lavoro. Adesso tanti segnali ci avvertono che si stanno compiendo passi indietro e sono segnali inquietanti, anche se non è solo FIAT al mondo».

Perché però proprio la FIAT fa da portabandiera di accanimento antisindacale?
«Credo che gli aspetti del problema siano almeno due. Intanto la FIAT si è fatta portatrice di una teoria secondo la quale i diritti sono costi da tagliare, secondo la quale i diritti frenano la competizione. Insomma la FIAT ci fa credere che alla globalizzazione si possa reagire adeguandoci ai modelli bassi, non cercando, invece, di esportare – e quindi di difendere – quelle conquiste che hanno contraddistinto lo sviluppo in molti dei paesi europei. È uno schema che rivela una convinzione: che nel luogo di lavoro esistano solo tempi da rispettare, ritmi da accelerare, che un lavoratore quello debba fare, rispettare e accelerare, e quindi si debba spogliare delle proprie opinioni, che debba rinunciare a decidere a quale sindacato iscriversi, che non possa servirsi di un giornale per informarsi e costruirsi un proprio orientamento. In fabbrica va bene un lavoratore senza identità,un prestatore d’opera senza coscienza di sé e dei propri diritti».

Diritti che non sono mai entrati in conflitto con la competitività di un’azienda. Poi viene il secondo aspetto del problema…
«Sì, perché anche questo attacco lo si può leggere dentro un contesto di crisi della politica, di disaffezione nei confronti della politica che si manifesta nel ricorso pieno alla delega. Si vota, si sceglie un rappresentate e finisce lì: la partecipazione resta alla porta, quando si sa bene che la democrazia chiede partecipazione e che non s’affida ad altri la propria libertà…».

Qui si va alla storia recente, alla nascita di un governo tecnico…
«Sì, la politica in crisi di rappresentanza, sotto accusa, sfiduciata, delegittimata non ha saputo esprimere altro che un governo di tecnici, animando una nuova tecnocrazia. Si rinuncia agli strumenti che la Costituzione ha dato, pensando che qualcuno, in questo caso un tecnico, possa tirarti fuori dai guai. Ma così si lascia intendere che democrazia e partecipazione siano dei lussi, che in momenti di ristrettezze, è meglio lasciar perdere. Sappiamo bene tutti invece che democrazia e partecipazione sono state e sono le condizioni del nostro progresso».

Marchionne la sua idea dei diritti l’ha espressa in modo chiaro. Non possiamo pretendere da lui anche una spessa cultura politica. Poi c’è di mezzo la nostra storia da tangentopoli in avanti.
«Marchionne vuole imporci il modello americano. Credo che dovrebbe prima di tutto pensare sì a nuovi modelli ma modelli di automobili da esportare. Per il resto si dovrebbe parlare, dopo tangentopoli, di una riforma incompiuta, dopo la defezione dei grandi partiti. Non si è creata un’alternativa che alimentasse la democrazia, perché alternativa non è andare a votare al tempo giusto e finirla così, alternativa non è immaginarsi una rappresentanza attraverso qualche social network. L’attacco al sindacato discende da lì: prima l’antipolitica delegittima i partiti, poi allo stesso modo mette in discussione il ruolo dei sindacati. Tutto diventa casta, anche i sindacati diventano casta che difende una minoranza di privilegiati. La dualità del mercato del lavoro ha aggiunto in peggio qualcosa: chi non si sente protetto, non si sente neppure impegnato a difendere diritti di cui non gode, diritti che sente come privilegi di altri».

Dentro questa onda, alzata da tangentopoli, sospinta dal berlusconismo, trova il suo posto l’attacco all’articolo 18.
«Con una discussione viziata da un ideologismo fortissimo, che non tiene conto dei dati della realtà. Non sarà certo l’articolo 18 a frenare la ripresa economica, ad allontanare chi vuole investire in Italia. Si vuol far credere che licenziare sia un punto di libertà proprio dell’impresa».

Ha molto colpito in questi giorni la Statistica che vede i lavoratori italiani tra i meno retribuiti in Europa. Si può mettere in relazione la maglia nera nei salari con l’attacco al democrazia in fabbrica?
«Sì, pensando alle condizione di criticità della politica come rappresentanza dei cittadini e alla sconfitta negli anni delle politiche di redistribuzione dei redditi. Sì, leggendo ancora quanto guadagnano i grandi dirigenti pubblici, come abbiamo a stento saputo e come non sappiamo del tutto, ignorando ciò che deriva dal cumulo degli incarichi. Smarrendo il senso della democrazia e della partecipazione, s’è spezzato il vincolo della solidarietà».

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