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Camusso: “Monti, non sai dove vivi”
di Ufficio Stampa CGIL Siena | Gennaio 4, 2013
Camusso: “Monti, non sai dove vivi”
Parla la leader della CGIL, intervistata per ‘L’Espresso’ dal direttore del ‘Die Zeit’. Dura replica al premier che accusa il sindacato di rallentare la modernizzazione dell’Italia: ‘Lui ce l’ha con il lavoro’. E attacca: sulle pensioni, sul calo continuo delle retribuzioni, sull’irresponsabilità del nostro sistema d’impresa
04/01/2013 da www.cgil.it
Susanna Camusso è stata tra gli oppositori più duri del governo Monti e oggi dà un giudizio molto critico sulla cosiddetta Agenda del premier, attorno alla quale si stanno coagulando le forze più centriste del Paese in vista delle elezioni di fine febbraio. Al Professore della Bocconi hanno già garantito l’appoggio molti imprenditori e il Vaticano. In questa intervista rilasciata per “l’Espresso” a Giovanni di Lorenzo, direttore del settimanale tedesco “Die Zeit”, il segretario nazionale della CGIL spiega da un lato le sue diffidenze verso questa alleanza, ma dall’altro affronta temi di più ampio respiro in chiave europea. Dalla crisi dell’industria al lavoro che c’è sempre meno. Risponde anche alla richiesta di fare un parallelo tra la realtà italiana e quella tedesca, per esempio sulla cogestione, un pilastro del sistema economico in Germania che in Italia non ha mai attecchito soprattutto per la diversa struttura delle imprese. Ci tiene anche a fare qualche distinguo tra i sindacati dei due paesi.
Signora Camusso, chi è oggi il nemico principale del lavoratore ed impiegato italiano?
«Il nemico principale è la mancanza di lavoro! L’Italia è un paese ormai fermo da tre anni e mezzo o quattro, e con una disoccupazione crescente. In particolare tra i giovani che per questo si trascinano dietro un senso di colpa collettivo. Ma i sensi di colpa non risolvono certo i problemi, semmai sono un alimentatore di precarietà, del sommerso, del degrado progressivo della condizione lavoro».
I dati ufficiali infatti registrano una disoccupazione giovanile sul 36 per cento…
«Sì, ma i giovani senza lavoro sono anche di più. Nelle statistiche non compaiono quelli che rinunciano a cercare lavoro, il che vale soprattutto per le donne e in particolare nel Mezzogiorno. Ci sono poi non solo i rassegnati, ma nei dati non si tiene conto neanche di quel 25 per cento di sommerso difficile da tradurre. Una cifra molto alta che oggi corrisponde, probabilmente, a un paio di milioni di posti di lavoro sommersi».
Qualunque tedesco passi le vacanze in Italia, nota come tanti posti siano oggi occupati da stranieri. Gli italiani non li vogliono fare più certi lavori?
«In parte, sì è così. D’altra parte, dire che gli italiani “non vogliono” resta molto difficile. Proprio in questi giorni i quotidiani riportano statistiche sulle donne italiane che tornano a fare le collaboratrici domestiche o, come purtroppo si dice da noi, le “badanti”».
Perché “purtroppo”?
«Perché è un termine inventato e connesso soprattutto agli immigrati nel settore. Abbiamo notoriamente tutta una fascia di lavori più umili, faticosi e meno retribuiti in parte occupata da stranieri. Ed ora queste aree dalle quali il lavoro italiano era uscito, tornano nella crisi a essere realtà. Comunque è indubbio che in Italia domini una gerarchia del lavoro che non ha analogie, credo, altrove. Qui certi lavori qualificati sono ritenuti umili. Ad esempio, il campo dell’assistenza alle persone è del tutto sottovalutato nel nostro paese, come ciò che un tempo rientrava nel lavoro domestico tradizionalmente svolto dalle donne».
Il nemico del lavoratore è la disoccupazione? Un tempo un sindacalista avrebbe individuato il vero nemico nel padrone della fabbrica…
«In un paese di piccole e piccolissime imprese come il nostro la figura del “padrone” è progressivamente scomparsa. Non c’è dubbio che il nostro sistema d’impresa sia irresponsabile e che non si interessi affatto del continuo degrado dell’industria italiana. Da 18-20 anni non vediamo veri investimenti in Italia. Vediamo solo il massiccio trasferimento dei profitti in altri paesi».
Già, ma non solo manager ed industriali dicono che una delle cause primarie della mancanza d’investimenti siate proprio voi sindacalisti…
«Il solito ritornello! La realtà è che gli anni Ottanta, stagione di grandi trasformazioni industriali e tecnologiche – la cosiddetta prima rivoluzione digitale – hanno significato per l’Italia una forte svalutazione competitiva. Mentre cioè il mondo si rinnovava tecnologicamente e affrontava svolte decisive, il nostro paese reagiva collocandosi su una fascia più bassa ed usando la svalutazione della lira come leva competitiva. Nel momento in cui poi si è scelto d’entrare nell’euro – e fu l’ultimo obiettivo condiviso collettivamente dal paese – non si poteva più far ricorso a questo strumento. Da allora, sul piano dei diritti e delle retribuzioni, in Italia si è puntato esclusivamente sulla riduzione del valore del lavoro: non è un caso se siamo il penultimo paese europeo per valore delle retribuzioni lavorative».
Quanto guadagna un lavoratore Fiat?
«Un lavoratore Fiat che faccia due turni, cioè che rientri nella media dei vecchi stabilimenti, non arriva a 1200 euro».
Come può in Italia una famiglia vivere di questo salario?
«E’ uno dei famosi misteri di questo paese! Conseguenza diretta di questo sviluppo negativo del mercato del lavoro è, tra l’altro, la riduzione progressiva del tasso di natalità: in Italia occupiamo, ancora dopo la Germania, l’ultimo posto in Europa».
Come fa una famiglia italiana a tenersi a galla?
«Un elemento molto importante è che il nostro paese ha – anche se il governo Monti ha cercato di disfarlo pezzo dopo pezzo – un sistema sociale funzionante. Negli ultimi anni abbiamo registrato una crescita progressiva dell’occupazione femminile: nella famiglia degli operai Fiat di Torino sono almeno in due a lavorare. L’aumento degli occupati ha consentito di reggere le basse retribuzioni. In realtà, gli italiani hanno mostrato una notevole capacità di far fronte ai sacrifici, una resistenza davvero alta ai rischi. E poi c’è il fatto che nella famiglia italiana ci si sostiene: dal punto di vista del reddito almeno, siamo tornati ad una dinamica di famiglia allargata».
Diversamente che in Germania poi, qui in Italia le case sono spesso di proprietà…
«In questo deteniamo il record mondiale, l’85 per cento degli italiani ha case di proprietà. Ciò rispecchia, da un lato, una tradizione contadina. Dall’altra, una reazione al mercato degli affitti insopportabilmente alti».
Ciò che dice suona molto moderato. Il ruolo del sindacato è ancora di tipo conflittuale?
«Sì, il nostro è un sindacato conflittuale».
All’opposto quindi delle grandi confederazioni sindacali tedesche...
«Non saprei. C’è stata una fase in cui la Ig-Metall (il sindacato tedesco dei metalmeccanici, NdR) era spesso citata nel nostro dibattito. Adesso vedo che prevale menzionare Verdi (sindacato del pubblico impiego), ma i tempi cambiano. Comunque, una differenza fondamentale tra sindacati tedeschi e noi resta, in Germania, il meccanismo della Mitbestimmung, della partecipazione alle decisioni aziendali, che da noi non esiste».
Soprattutto a questo si deve in Germania la forte coesione sociale. Perché in Italia non esistono modelli di cogestione?
«Abbiamo provato a introdurla. Ma qui, a differenza che in Germania, il 95 per cento delle imprese contano meno di dieci dipendenti. E’ proprio questo nostro sistema capitalista familiare che rende le cose tanto complicate».
Anche in Germania le grandi imprese erano familiari ed hanno introdotto solo dopo il ’45 la cogestione…
«L’Italia invece ha mantenuto un’idea molto familiare dell’impresa. Gli scioperi d’altra parte hanno qui un valore molto più importante che in Germania, visto che gli scioperi nazionali fanno parte della liberazione del nostro paese».
Se alla Fiat scoppia una vertenza, a trattare siete in cinque sindacati. Non sarete mai uniti contro i datori di lavoro?
«No, credo di no. E le probabilità di esserlo non sono mai state tanto basse quanto oggi». In cosa siete divisi? «Be’, praticamente in tutto: nel 2009 ci siamo divisi sul modello contrattuale, oggi sull’idea della Cisl di sostenere un governo Monti-bis».
Per lei è un complimento o un’accusa se qualcuno la considera il più fiero avversario di Mario Monti?
«Né un’accusa né un complimento, lo ritengo un dato oggettivo».
Perché combatte Monti?
«Ma chi parla di combattere? Nessuno qui combatte, visto che il Signor Monti – persona stimabile, per carità, e cortese – ha avuto il merito di riportare un linguaggio istituzionale: lo ritengo un grande valore. Perché poi penso che il suo governo, sul piano delle politiche realizzate, ha sbagliato tutto. Io penso che ce l’abbia con il lavoro, che lui non abbia l’idea di com’è fatto il nostro paese; né della condizione dei lavoratori e della necessità di non fare ulteriori politiche che favoriscano chi già sta bene, mentre il mondo reale dei lavoratori sta sempre peggio».
Ma Monti ha avviato un processo di riforme inevitabili per i paesi in crisi, così come sono state realizzate anche in Germania…
«Certo, ci sono delle riforme che andavano fatte, su questo non c’è dubbio».
Quali non avrebbe dovuto fare?
«L’innalzamento dell’età lavorativa. Se le capita d’incontrare un poliziotto, gli chieda che ne pensa di dover inseguire, a 65 anni, ragazzi alle manifestazioni, ladri o mafiosi. Non tutto è eguale o neutro. O lei si affiderebbe in ospedale alle cure di un infermiere di settant’anni?».
Ma dobbiamo confrontarci col fatto che le nostre società diventano più vecchie…
«Certo, è necessario e urgente farlo, ma dando giuste risposte. Ovviamente puoi pensarla come l’amministratore delegato della Fiat che continua a tagliare i tempi per incrementare competitività. Si immagini ciò che significa per un lavoratore Fiat con 35 anni di catena di montaggio! Sì, viviamo più a lungo, ma questo non vuol dire che restiamo trentenni più a lungo. Occorre immaginare un sistema in cui, ad esempio, il poliziotto settantenne stia dietro la scrivania, e non corra in pattuglia per strada».
Ma è vero anche che gli investimenti stranieri in Italia sono i più bassi della zona Euro.
«Certo. Ma questa è una delle ragioni delle mie più forti arrabbiature contro una logica delle riforme tagliate tutte e solo sul criterio della riduzione dei costi del lavoro».
Le riforme sono o no il presupposto necessario per gli investimenti?
«Esatto. Infatti questo è uno degli argomenti su cui noi sindacati abbiamo insistito, anche bruscamente. Non è possibile cambiare la vita pensionistica d’un intero paese in 14 giorni, e non riuscire a fare in un anno né una legge sulla corruzione degna di questo nome, né a reintrodurre il falso in bilancio! Certo, le riforme hanno un prezzo. Ma non si tratta di costi sul bilancio dello Stato, anzi. Le vere riforme sono il meccanismo d’ingresso per gli investimenti».
Gli investitori temono che qui in Italia sia quasi impossibile licenziare un lavoratore. E qui rientra in gioco, mi pare, la CGIL…
(ride) «Certo! Sull’articolo 18 noi ci siamo fieramente opposti e continueremo ad opporci! Dopodiché vorrei specificare che in Italia abbiamo un sistema di protezione sul licenziamento meno forte di quello tedesco».
In compenso, in Italia i procedimenti giudiziari in caso di licenziamenti durano molto a lungo…
«Nel frattempo qualcosa è cambiato. L’imprenditore straniero può contare, per quanto concerne licenziamenti, su procedure più veloci. Ma alla fine non so cosa conti di più nella sua scelta pro o contro il sistema Italia. Ogni tanto vengono a trovarmi aziende che vorrebbero investire, ma che si ritrovano da un anno e mezzo in attesa di autorizzazione. Di recente, imprenditori svizzeri sono venuti a dirmi: ce ne andiamo, da due anni non abbiamo una risposta».
Che c’entra il sindacato in tutto ciò?
«Assolutamente nulla. Anzi, siamo tra i promotori della riforma di una pubblica amministrazione che oggi penalizza, procedura su procedura, i lavoratori e che non porta vanti il paese».
Come giudica la produttività delle aziende italiane?
«La produttività è molto variabile. C’è una fascia di imprese – quelle cosiddette “Quarto Capitalismo” – ad alta retribuzione, tanta contrattazione e forte produttività. Queste aziende investono molto».
In alcuni stabilimenti Fiat però i dati di assenteismo sono tra i più alti in Europa…
«In quanto ai dati, disponiamo solo di quelli che ci fornisce l’impresa. Mi ha molto colpito che tutto il mondo ha parlato di grandi assenteismi a Pomigliano d’Arco, quando invece lì c’è un tasso inferiore che in altri impianti Fiat. Certo, c’è il famoso casus belli: quando gioca la nazionale, tutti a vedere la partita!».
Questo come lo giudica?
(ride) «Be’, dipendesse da me, lo abolirei il calcio! Scherzi a parte, un altro tema che Fiat ci ha proposto è, specie a Melfi, l’alto tasso di lavoratori scrutatori o presidenti di seggio a cui, per legge, è concesso un giorno libero. E’ vero, in Italia si vota molto, e l’election day non va di moda».
Riconosce almeno al governo Monti il fatto d’aver ridato ai creditori la fiducia?
«Sì, assolutamente sì».
E questo non le pare un ottimo capitale per far ripartire il paese?
«Sì, questa fiducia è un capitale molto importante. Ma il vero dramma è capire perché all’estero se ne sia persa tanta di fiducia nei nostri confronti. Il nostro paese non meritava questa perdita di credibilità».
Nemmeno dopo 19 anni di berlusconismo?
«Certo che no! E’ il berlusconismo che ha determinato questo crollo di fiducia, sicuramente non il popolo di questo paese!».
Ma sono stati gli italiani a eleggere Berlusconi, più di una volta.
«Questo sì, ma penso che occorra differenziare, soprattutto per rispetto al mondo del lavoro e di chi in questo paese ha continuato a tirare avanti la carretta».
Il lavoratore italiano è ancora di sinistra?
«No, il lavoratore italiano è tante cose, e da tempo. Anche perché, sin dagli anni ’90, i grandi partiti si sono distrutti. Se dà un’occhiata ai sondaggi, vedrà che è quasi impossibile assegnare un’identità politica collettiva al lavoratore italiano. Tra ciò che si vota e il sindacato a cui si appartiene, da tempo non c’è più corrispondenza”.
Quindi non è corretto dire che quelli del PD siano membri della Cgil?
«No, non è più vero».
Nemmeno che la CGIL sia vicina al PD?
«Non c’è dubbio che la CGIL ha molti militanti che sono anche militanti del Pd».
Darà una raccomandazione di voto per le prossime elezioni?
«Noi promuoviamo sempre, e lo faremo anche stavolta, un’iniziativa che punti sulle necessità di governo del paese, stimolando un confronto aperto con i candidati del centro-sinistra. Ma si tratta più di appelli al voto che di vere e proprie indicazioni. Qualche volta facciamo iniziative di sostegno, ma si tratta sempre di temi, non di partiti».
Cosa ha spinto la giovane Camusso, studente di lettere, ad entrare nei sindacati: la sua è una famiglia borghese, no?
« Ha a che fare con il periodo storico di allora. La formazione culturale della mia famiglia era di sinistra. E già da studente volevo impegnarmi nel sociale, porre dei segnali. Resta in ogni caso la mia profonda convinzione che è il lavoro a muovere tutto. E’ la condizione dei lavoratori ciò che davvero modifica la società presente e futura».
A quei tempi lei era comunista?
«No, non sono mai stata comunista. Per una stagione sono stata iscritta al Psi. Sino a quando non ne uscii dichiarando che avrei voluto iscrivermi alla Spd».
Vede la crisi nel senso di Gramsci, come il momento in cui il vecchio sistema crolla e il nuovo lotta per emergere?
«Questa immagine resta affascinante. Ma non credo che serva a descrivere l’attuale situazione, anzi. Poiché più questa crisi si sviluppa più nettamente ho l’impressione che chi l’ha creata e determinata stia facendo di tutto per risorgere dalla crisi stessa».
Allude a Berlusconi?
«No, alludo al liberismo. Inteso come sistema economico, da non confondere con l’idea liberale e democratica, ma come un modello basato sulla disuguaglianza sociale e sull’arricchimento di pochi».
Ma chi lo rappresenta questo modello’?
«Be’, il grande Monti che sinora è stato presidente del Consiglio! La realtà è che ciò che ci viene presentato come il nuovo modello di impresa, è oggi determinato dalle agenzie di rating e dalle operazioni del sistema finanziario. Queste trasformazioni non hanno nulla a che fare con Berlusconi, che comunque non è stato un liberista».
Cosa è stato invece?
«Statalista, almeno per tutto quello che gli conveniva».
Un egoista, quindi?
«Anche, e sempre e solo per quel che gli conveniva. Lui è stato soprattutto un altissimo utilizzatore del pubblico finanziamento. Insomma, Berlusconi è stato uno dei principali artefici del degrado del rapporto con le istituzioni nel nostro paese».
In Germania non abbiamo donne al vertice dei sindacati. Anche in Italia lei è una novità assoluta. E’ stato difficile per i “compagni” abituarsi a una donna alla guida della Cgil?
(ride) «Alcuni ancora fanno fatica…».
E perché?
«Provi a pensare a com’è l’idea della donna e della famiglia in Italia. Per molti uomini non c’è nulla di più grave che una moglie o compagna che guadagni più di lui. L’era del berlusconismo ha alimentato, e di molto, tutti questi pregiudizi».
Chi andrà al potere alle prossime elezioni?
«Spero il centro-sinistra. E’ come se il resto d’Europa ci guardasse e ci dicesse: non avete Berlusconi solo perché c’è Monti. In realtà, sono stati gli italiani che, in mezzo a una crisi più grave di quello che si immaginasse, si sono liberati di Berlusconi!».
Se ne sono liberati anche culturalmente?
«No, culturalmente non del tutto. Ma alcuni fenomeni culturali non sono riconducibili al solo Berlusconi. La diseguaglianza e l’egoismo sociale c’erano anche prima di lui, e non sono solo figli di Berlusconi. Ora c’è un pressing del mondo che sembra dire: speriamo che Monti resti, sennò l’Italia va indietro! Ma ciò non corrisponde alla realtà del paese. Poi è vero che abbiamo una quota di Anti-politica molto alta, e che va da De Magistris a Grillo, da Di Pietro a Berlusconi sino alla Lega che, in fondo, è la stessa cosa”.
Uno dei fenomeni che più spaventa nell’Italia di oggi è tanta sfiducia politica della gente…
«Esatto. Se si misura l’anno appena passato, non si può dire che il governo Monti abbia particolarmente rafforzato la fiducia della gente nelle istituzioni e nella politica. Non mi riferisco tanto alle riforme che Monti ha fatto, quanto ai toni che usa sulla politica e sulla ricostruzione. Non si può dire: quanto siete bravi in parlamento, se la maggioranza approva i suoi provvedimenti e dall’altra, quando si discute del futuro, dire che la politica dell’Italia fa schifo e che tutto va cancellato».
Ha detto che l’italiano è paziente e sopporta. Ma non c’è pericolo di sommosse quando è troppo, una prospettiva rivoluzionaria a lungo andare?
«No, penso invece che in Italia è avvenuta una grande rivoluzione silenziosa e pacifica. Una rivoluzione delle donne, ed è qualcosa di più grande di quel che si pensi. A parte ciò, l’Italia è un paese che ha avuto stagioni di povertà molto intense, ma che è riuscito ad autoricostruirsi. Un paese che non si è mai tirato indietro e sì, è meno diviso e spezzato di quel che non appaia. E per questo oggi affronta la crisi senza sprofondare in tumulti e sommosse. Certo, i tanti drammi individuali non si contano. E purtroppo è vero che una parte del paese continua a fare quel che vuole e che le diseguaglianze crescono. E’ questa la miscela esplosiva in cui ora ci troviamo».
In Germania non c’è più un ufficio in cui si possa fumare. In Italia, visto che lei ne fuma una dopo l’altra, le cose stanno diversamente. Sotto questo aspetto, almeno, i lavoratori italiani stanno meglio che altrove?
(ride) «No, anche da noi è vietato fumare. Ma qui siamo in un ufficio privato…».
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