10/03/2013
«La risposta a un voto che nella sua articolazione può apparire di sfiducia o di prevalente sfiducia – che da un lato si affida ai sogni e dall’altro alla rottamazione e non è sufficiente a indicare una prospettiva di cambiamento – deve rafforzare le ragioni del cambiamento che si propone. E questo è possibile se si va alla sostanza delle esigenze delle persone». E per Susanna Camusso, segretaria CGIL, le esigenze delle persone ruotano attorno a due grandi questioni: il lavoro e l’equità. Da qui, dice Camusso alla vigilia della sua partenza per New York, dove andrà a rappresentare il sindacato mondiale nella plenaria Onu sulla violenza contro le donne, dovrebbe partire l’azione del prossimo governo.
Napolitano dice che il Paese non può aspettare, c’è bisogno di un governo. Quale deve essere il primo punto all’ordine del giorno dell’esecutivo?
«Il lavoro. È questa la vera emergenza del Paese che implica interventi immediati e di prospettiva. Il quadro diventa ogni giorno più drammatico con moltissimi posti di lavoro in pericolo, un tasso di disoccupazione allarmante e gli ammortizzatori sociali a rischio. Il tema non può essere soltanto quello delle coperture del reddito, che sono importanti, ma come si reimpostano le condizioni per poter guardare al futuro e porre rimedio a ciò che non si è fatto con i governi che abbiamo alle spalle, quello Berlusconi e quello Monti».
Come si reimposta il futuro che intere generazioni non riescono a vedere?
«Intanto sbloccando i pagamenti da parte delle pubbliche amministrazioni alle imprese per non mandare a gambe all’aria tutti coloro che stanno ancora resistendo e dando la possibilità ai cantieri di iniziare i lavori. E poi bisogna delineare due o tre grandi indirizzi di politica industriale che ricomincino ad attrarre investimenti utilizzando esplicitamente anche le grandi imprese pubbliche, come Eni, che ha alti ricavi, e Finmeccanica. Altro tema: la giustizia sociale. Non possiamo continuare a dare stipendi altissimi ai manager pubblici e delle imprese private e lasciare che i lavoratori continuino a percepire un reddito non sufficiente a garantire una vita dignitosa. Intervenire in questo modo vuol dire dare un segno ai cittadini, mettendoli di nuovo al centro dell’azione politica, questione di cui ci si è preoccupati poco in questi ultimi anni dando l’impressione che l’Italia sia un Paese che non ha risorse e possibilità di farcela».
Anche lei teme una situazione di instabilità che possa aggravare lo stato di cose di cui ha parlato?
«Il governo non è un’astrazione, ha il compito di indicare delle priorità, decidere e fare delle scelte: non si può lasciare un Paese nel nulla. Capisco e condivido l’urgenza del rinnovamento delle istituzioni, di responsabilità e della politica, ma non basta e non credo che la situazione vada cercata in un governissimo».
Non le sembra che gli elettori abbiano voluto dare più importanza a questo aspetto, il rinnovamento, che all’emergenza lavoro?
«Non condivido questa lettura perché questo è stato un voto complesso. È vero che molti hanno anteposto il cambiamento e il rinnovamento a tutto il resto, ma c’è anche un terzo del Paese che ha votato di nuovo per chi ci ha portato in questo grave stato di crisi. In questo voto c’è un segno della sfiducia dopo anni che non cambiavano le cose, e c’è il segno delle paure rispetto alla propria condizione e di una profonda divisione in un Paese dove le diseguaglianze sono fortemente cresciute. Oggi la domanda da porsi è soprattutto una: da dove si ricostruisce una dimensione unitaria del Paese? Non ricomporre la frattura che la maggiore povertà e le diseguaglianze hanno provocato significa mettere l’Italia in condizione di non farcela a superare la crisi che non è finita, sia chiaro, e che nei prossimi mesi è destinata ad acuirsi».
Lei dice non abbiamo bisogno di un governissimo. Eppure sono in molti a invocarlo.
«Come CGIL abbiamo detto con chiarezza che secondo noi non si può tornare alle logiche del governissimo o dell’esecutivo di unità nazionale perché si deve rispettare l’esito del voto. Credo che la risposta che gli elettori si aspettano è quella di un governo politico che possa dare il via a misure concrete per migliorare le condizioni di vita, che guardi all’economia reale, ai redditi, ai posti di lavoro. Soltanto in questo modo si rafforzano gli interventi, altrettanto necessari, sulla trasparenza, la sobrietà e i costi della politica. Quella che stiamo attraversando non è una situazione dalla quale si esce facendo a gara a chi urla di più, bisogna rimettere in moto una tendenza positiva e non ci si può permettere di aspettare tempi migliori: ogni aggravamento della crisi avrà un effetto moltiplicatore perché si somma ad un insieme di fattori già drammatico. Abbiamo un giovane su tre senza lavoro, al Mezzogiorno è uno su due, c’è una popolazione “più anziana” che non riesce a rientrare nel mercato del lavoro e ci sono aziende che ogni giorno chiudono. Questo è il quadro con il quale bisogna fare i conti».
Bersani ha presentato i suoi otto punti e su quelli intende chiedere la fiducia in Parlamento. Le sembrano una risposta efficace?
«Possono esserlo, ma c’è bisogno di sviluppare quei titoli, di tradurli. Ad esempio, c’è molta attenzione a riformare i livelli istituzionali. Giusto, ma è necessario affrontare questo tema insieme ad un altro: la riorganizzazione della pubblica amministrazione per renderla efficace e qualificare maggiormente il lavoro pubblico. Non si può immaginare una diversa concezione delle istituzioni senza contemporaneamente avere una visione avanzata del lavoro pubblico. C’è bisogno di efficienza per far sì che i servizi pubblici locali funzionino e servano ai cittadini, di risparmio che arrivando da uno snellimento delle istituzioni possa diventare volano per i grandi servizi come l’istruzione e la scuola. C’è poi bisogno di qualità nei servizi e nelle istituzioni, che è una delle ragioni dello scollamento con i cittadini. Tutti temi difficilmente risolvibili senza il coinvolgimento di quei lavoratori e un completamento della riforma del lavoro pubblico».
Lei ha anche detto che in quegli otto punti dovrebbero esserci le politiche industriali.
«Ci vorrebbe più coraggio su quel fronte, sul ruolo delle grandi aziende pubbliche, perché da lì si può invertire la rotta. Queste aziende sono partecipate dello Stato e quindi spetta anche a loro in questa fase avere un ruolo. Si deve aprire una stagione di discussione in cui al centro ci siano le persone e l’economia reale. È una discussione che può dar forza alla nostra idea di Europa che è contemporaneamente una questione essenziale ma anche sottotraccia nella discussione. L’Europa è vissuta da tanta parte del nostro Paese come uno dei nemici e non come una possibilità di avere un’economia più forte. Bisogna essere inequivoci su questo punto e dire che la politica europea, come così come è stata finora, ha allontanato i cittadini dall’Europa e per una serie di Paesi come il nostro ha provocato un’accelerazione dell’ineguaglianza e dell’emergenza sociale. C’è bisogno di un doppio messaggio: cambiamo l’Europa e iniziamo noi a fare le cose necessarie a cambiare il segno fin qui dato».
In questo fase della crisi sempre più spesso si dice che gli interessi di imprese e lavoratori sono comuni.
«È un concetto che sento sempre più spesso ma le cose non stanno esattamente così. In questi anni la precarietà è stata largamente usata per abbassare i redditi mentre intere generazioni non hanno mai conosciuto un contratto. Mi sembra semplicistico dire che impresa e lavoratori hanno interessi ormai comuni».
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