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‘Dopo la crisi, la crisi’ – presentato il Rapporto sui diritti globali 2014
di Ufficio Stampa CGIL Siena | Luglio 9, 2014
‘Dopo la crisi, la crisi’ presentato il Rapporto sui diritti globali 2014
08/07/2014 FOTO da www.cgil.it
Presentato quest’oggi presso la CGIL Nazionale la dodicesima edizione del Rapporto sui Diritti Globali, un lavoro edito Ediesse, curato dall’Associazione Società Informazione e promosso dalla CGIL. Nel volume di quest’anno viene dato largo spazio all’analisi della crisi globale ancora in corso e a tutti i suoi effetti, esplicativo, come ricordato da Danilo Barbi, Segretario Confederale della CGIL nel suo intervento, il titolo di questa edizione: ‘Dopo la crisi, la crisi’. “Al termine della crisi non ci sarà sviluppo, poiché – spiega il dirigente sindacale – non è stato elaborato nessun nuovo modello di sviluppo e non si potrà tornare a quello vecchio”. “Il vero problema – prosegue Barbi – è che in tutto il mondo non si sta generando nuovo lavoro” il rischio che si correrà sarà “la diffusione di una ‘malattia sociale’, un cataclisma delle aspettative e delle speranze dei cittadini di tutto il mondo”.
Nel Rapporto si sottolinea come più che di crisi, si rischia ormai di dover parlare di catastrofe globale: dopo sei anni, infatti, tutti gli indicatori economici e sociali rivelano un quadro drammatico e univoco. In Europa le persone che hanno perduto il lavoro sono cresciute di 10 milioni, portando a 27 milioni il totale di disoccupati. Per il quinto anno consecutivo l’occupazione è in calo nel continente. I nuovi poveri sono cresciuti di 13 milioni di unità. Nell’Europa a 28 Paesi, nel 2012, le persone già povere e quelle a rischio di esclusione erano ben 124 milioni, poco meno di una ogni quattro, con una crescita di 2 milioni e mezzo rispetto all’anno precedente.
Nel suo piccolo, l’Italia contribuisce significativamente a questa mappa della privazione: il numero di quanti vivono in condizioni di povertà assoluta è esattamente raddoppiato tra il 2007 e il 2012, passando da 2 milioni e 400 mila a 4 milioni e 800 mila, l’8% della popolazione. Il tasso di occupazione nel 2013 è tornato ai livelli del 2002: 59,8%; all’inizio della crisi, nel 2008, era al 63%. Peggio stanno solo i greci (con il 53,2%), i croati (53,9%) e gli spagnoli (58,2%). Tra il 2012 e il 2013 sono stati persi 424 mila posti di lavoro. Dall’inizio della crisi hanno perso il lavoro oltre 980 mila persone. Il tasso di disoccupazione tra i giovani dai 15 ai 24 anni è arrivato al 42,4%. Muoiono le piccole imprese: dal 2008 ne sono scomparse 134 mila. E muoiono le persone: per quanto sia difficile stabilire nessi causali univoci e certi, alcuni studi indicano in 149 le persone che si sarebbero tolte la vita per motivazioni economiche nel 2013, quasi il doppio rispetto agli 89 casi dell’anno precedente.
Numeri moltiplicati e non meno tragici sul panorama mondiale: nel 2013 i disoccupati erano 202 milioni. Lievita anche il fenomeno dei lavoratori poveri: sono 200 milioni e sopravvivono in media con meno di due dollari al giorno.
Questo stato di catastrofe – umanitaria, non solo economica – non è una realtà inevitabile, bensì il risultato di scelte politiche precise. Nessun serio investimento è stato fatto per promuovere l’occupazione e sostenere il lavoro. La rotta non è stata invertita e nemmeno corretta. Anzi. Le politiche della Banca Centrale, del Fondo Monetario Internazionale e della Commissione Europea, la famigerata Troika hanno portato allo stremo i lavoratori e i ceti medi nel paesi destinatari dei programmi di assistenza finanziaria, Grecia, Portogallo, Irlanda, Spagna, Romania. Complice la crisi, è in atto l’intensificazione di una “lotta di classe dall’alto”, una resa dei conti totale con i sistemi democratici e di welfare, per come sono stati edificati nella seconda metà del secolo scorso, a partire dal modello sociale europeo. Sono potenti le spinte in direzione della privatizzazione dei servizi di protezione sociale in Europa, un potenziale mercato di 3.800 miliardi di euro l’anno, vale a dire ben il 25 del PIL, verso il quale si stanno indirizzando gli incontenibili appetiti dei gruppi finanziari e delle multinazionali. Risulta sempre più evidente il contrasto tra due idee diverse e antagoniste del mondo, la più forte delle quali, fondata sul dogma del libero mercato e sulla religione del profitto, vuole fare una definitiva tabula rasa di tutti i diritti faticosamente acquisiti dalle classi subalterne nel corso della seconda metà del Novecento. La crisi globale ha reso maggiormente manifesta l’incapacità di perseguire alternative. Negli ultimi anni a livello mondiale si è assistito alla bancarotta del liberismo. Eppure i responsabili della crisi – grande finanza, corporations e tecnocrazie – hanno stroncato violentemente ogni ripensamento sui paradigmi della crescita infinita e dell’asservimento totale dei viventi alle logiche del profitto, che sono state architrave di quella dottrina fraudolenta. E ora addirittura rilanciano, con quel Transatlantic Trade and Investment Partnership, il trattato commerciale USA-UE che incombe sull’Europa.
Eppure le proposte alternative sono da tempo sul tavolo. Certo, non bastano le piattaforme. Per trasformazioni di tale radicalità occorrono la forza politica, il consenso e la cooperazione sociale. Ma, per determinarne le precondizioni, necessita prima di tutto definire una nuova cornice culturale e valoriale. Un’altra Europa e un’altra globalizzazione, insomma, quella dei cittadini, dei diritti e della solidarietà politica e sociale, ha bisogno di essere pensata e di nascere presto dalle macerie di quella delle monete e dei mercati. Una riconversione ecologica dell’economia deve soppiantare il castello di carte della finanza speculativa, che da tempo detta le agende ai governi e che vorrebbe ora addirittura forzare e svuotare le Costituzioni antifasciste europee. Un deciso investimento sul lavoro stabile e di qualità e su un nuovo welfare deve spodestare la mortifera politica dell’austerità (solo in Grecia sarebbero 2.200 le morti direttamente riconducibili alle politiche del rigore) che sta strangolando economie e stato sociale e a cui l’Unione Europea e i singoli governi si sono inchinati. Come afferma nel Rapporto Luciano Gallino, “i Parlamenti hanno sbattuto i tacchi e hanno votato alla cieca perché ce lo chiedeva l’Europa. Non esistono alternative, ci è stato detto. Questa espressione è un corollario del colpo di Stato in atto”. Le alternative invece sono possibili, oltre che necessarie. Ma non possono che sortire dal basso, dalle forze vive del lavoro, della società, dei popoli. Per contrastare quel “colpo di Stato”, difendendo la democrazia, ricucendo la profonda ferita delle diseguaglianze, ristabilendo equità e giustizia sociale. Globalizzando i diritti.
“La luce in fondo al tunnel” della crisi, “che molti cercano di vedere dietro percentuali di crescita del Pil da ‘zero virgola’,è per il momento un semplice abbaglio. Purtroppo la luce della ripresa è ancora troppo lontana perché sia visibile”, scrive Susanna Camusso, Segretario Generale della CGIL, nella prefazione del Rapporto sui Diritti Globali E’ rimasta, sottolinea la leader CGIL, “un’economia che distrugge occupazione, che svilisce il lavoro, che calpesta i valori e i diritti”, che ha “precarizzato il lavoro e alimentato le differenze attaccando con violenza i sistemi di welfare”. La finanza, secondo Camusso, “causa della crisi, non può essere la via d’uscita” e l’austerità “è una scelta sciaguratamente sbagliata”.
Camusso auspica quindi “un dialogo tra le forze progressiste per cambiare i Trattati”. C’è “urgenza di cambiamento”: dal voto alle europee di quest’anno sono emerse “voci dissonanti che chiedono un cambio radicale delle politiche economiche e sociali”, legge il risultato del voto italiano come “la conferma della vocazione europeista del nostro Paese”, “un argine alle derive populiste” e “sottende il desiderio di un radicale cambiamento delle politiche recessive di austerita’ fin qui adottate dall’Unione Europea”.
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