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Perché i referendum della Cgil sono ammissibili
di Ufficio Stampa CGIL Siena | Dicembre 27, 2016
L’analisi – Perché i referendum della Cgil sono ammissibili
Ciò posto, e guardando ai limiti al referendum individuati dalla giurisprudenza della Corte come “impliciti” e connessi al sistema, bisogna anche notare che nessuno dei tre referendum della Cgil riguarda di sicuro “leggi a contenuto costituzionalmente vincolato”, e cioè la cui abrogazione pregiudicherebbe scelte di sostanza dovute per Costituzione: poiché tanto la materia delle sanzioni da adottarsi nel caso di licenziamenti illegittimi, tanto quella della responsabilità verso i lavoratori in caso di appalto tanto quella dell’uso del lavoro accessorio tramite “voucher” sono tutte materie rimesse alla decisione politica e discrezionale del legislatore, per cui è dunque ben praticabile un referendum abrogativo delle scelte fatte dalle leggi sin qui in vigore.
Sui singoli quesiti dei tre referendum
È poi altresì indubitabile che ciascuno dei tre referendum, su cui votare distintamente, abbia oggetto chiaramente identificato, sia omogeneo per la materia trattata e le alternative proposte agli elettori, nonché univoco negli esiti. Scendendo nel dettaglio dei singoli quesiti referendari, il referendum sul “lavoro accessorio (voucher)” mira ad abrogare le disposizioni di legge che hanno consentito un utilizzo di questo istituto improprio ed invasivo, tale da favorire forme incontrollate di precariato, in danno alla tipicità dell’utilizzo del lavoro a tempo determinato e del lavoro stagionale nonché, più ampiamente, in danno al principio, che è principio di livello europeo, per cui il rapporto di lavoro da reputarsi normale è quello a tempo pieno ed a tempo indeterminato.
Il referendum sulle “disposizioni limitative della responsabilità solidale in materia di appalti”, con un quesito la cui formulazione è semplice e piana, mira invece ad abrogare disposizioni di legge con le quali è stata attenuata (e vanificata) la responsabilità datoriale verso i lavoratori appunto in caso di appalto; si può aggiungere, al riguardo che tali specifiche disposizioni limitative del rispondere in solido, di cui il quesito referendario propone l’abrogazione, sono disposizioni legislative che fanno eccezione ai principi di diritto privato, di cui dunque la proposta referendaria tende a rispristinare l’integrità. Appena più articolata, infine, è la formulazione del quesito referendario “in materia di licenziamenti illegittimi”. Ma è da osservare come ciò sia dovuto solamente, oltre che agli sviluppi non lineari, a tratti incongrui o contraddittori e persino tumultuosi della legislazione in questa materia, ad una precisa esigenza tecnica, di indole squisitamente giuridica e costituzionale.
È infatti da osservare, preliminarmente, che in “in materia di licenziamenti illegittimi”, sebbene le scelte che il legislatore italiano può compiere non siano a contenuto costituzionalmente vincolato bensì politico-discrezionali, come già detto, la presenza di una legge che sanzioni adeguatamente l’illiceità dei licenziamenti medesimi, a carico del datore di lavoro il quale abbia illegittimamente licenziato, è da ritenersi costituzionalmente necessaria. Dal momento che per il tenore inequivoco dell’art. 30 della Carta dei diritti fondamentali dell’ Unione europea (oggi avente lo stesso valore dei Trattati), “ogni lavoratore ha il diritto alla tutela contro ogni licenziamento ingiustificato”, la legislazione italiana, stante il comma 1 dell’art. 117 Cost., non può non contenere la previsione di sanzioni, ragionevoli e proporzionate, per l’ipotesi appunto di licenziamento privo di legittime giustificazioni. Il che rende impossibile un referendum il quale proponesse ipoteticamente un’abrogazione “totale” e non solo “parziale” della legislazione italiana “in materia di licenziamenti illegittimi”; poiché l’abrogazione “totale” della legislazione italiana in materia potrebbe lasciare sguarniti di tutela i lavoratori innanzi a licenziamenti “ingiustificati” e pertanto illegittimi del datore di lavoro, così infrangendo principi fondamentali del diritto europeo, sia pure solo provvisoriamente ed in attesa di ulteriori necessitati interventi del legislatore.
Sotto questo profilo, è stata addirittura una scelta obbligata quella effettuata dalla Cgil nel formulare il quesito referendario, quando il sindacato ha scelto di proporre un’abrogazione non “totale” ma solo “parziale” della legislazione “in materia di licenziamenti illegittimi”; come del resto ex professo permette il comma 1 dell’art. 75 Cost., nel discorrere di referendum per l’abrogazione “totale o parziale” delle leggi. È notorio – e ne è attestazione la copiosa giurisprudenza costituzionale sui referendum elettorali – che quando concerne leggi “costituzionalmente necessarie”, come nel caso nostro, il referendum possa essere un referendum solo di abrogazione “parziale”, e non “totale”, proprio per non cagionare vuoti legislativi i quali impediscano lo svolgimento, per sé necessario, di principi e regole costituzionali.
In questo quadro, peraltro, il referendum per l’abrogazione “parziale” della legislazione “in materia di licenziamenti illegittimi”, secondo il quesito proposto dalla Cgil, è chiaro, univoco, omogeneo e saldamente ancorato ad una “matrice unitaria”, come richiede la giurisprudenza costituzionale consolidata per l’ammissibilità. Il “sì” al quesito referendario, lungi dal rendere meno limpide e nitide le disposizioni di legge sui “licenziamenti illegittimi” che ne sono l’oggetto, ne ricomporrebbe il significato unitario, restituendo la certezza del diritto. Rispetto alle disposizioni oggi in vigore, variegate e costellate di differenziazioni immotivate quanto al trattamento dei lavoratori ed alle sanzioni applicabili a chi licenzi “illegittimamente”, il “sì” al referendum lascerebbe in vigore (quale normativa cd. “di risulta”, come la chiama la giurisprudenza costituzionale), una disciplina legislativa precisa e rigorosamente unitaria, incentrata sulla sanzione reale della reintegrazione nel posto di lavoro per la generalità dei “licenziamenti illegittimi”, in tutti i casi in cui il datore di lavoro occupa alle sue dipendenze più di cinque lavoratori.
Mentre, quanto a questa soglia dei cinque dipendenti, che rimarrebbe come soglia per l’applicazione della disciplina risultante dal “sì” al quesito referendario, c’è da notare che, anche per questo aspetto non ci sarebbe alcuna innovazione della legislazione previgente, tale da tramutare il referendum in uno strumento che trapassi gli effetti di un’abrogazione “parziale” delle disposizioni dettate dal legislatore politico. Infatti, la soglia dei cinque dipendenti di cui si discute è prevista anche oggi quando si tratti di “licenziamenti illegittimi” da parte di “impresa agricola”, segnatamente dal comma 8 dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori; ed il quesito referendario, con l’abrogazione parziale proprio del comma 8 del testo attuale dell’art. 18 dello Statuto, non farebbe altro se non allargare lo spettro applicativo di questa medesima soglia dei cinque dipendenti, rendendola applicabile (anche) ai lavoratori ed alle imprese che operano in settori diversi da quello dell’agricoltura.
Il che implica un utilizzo dell’abrogazione “parziale” tramite referendum assolutamente normale e costantemente ritenuto ammissibile. Nella prassi è divenuto persino usuale che il referendum riguardi solo una porzione di una singola disposizione legislativa al fine di restringerne, ampliarne o persino ribaltarne (ad es. con la mera cancellazione di un “non”) il significato. Anche il quesito referendario “in materia di licenziamenti illegittimi”, come gli altri proposti dalla Cgil, è dunque assolutamente ineccepibile, dal punto di vista del giudizio sull’ammissibilità della Corte costituzionale; il quale giudizio sull’ammissibilità della Corte, avendo carattere prettamente giuridico, non può né tantomeno deve essere piegato a logiche di dissenso puramente politico, le quali hanno e debbono avere, come sede naturale ove manifestarsi, solo ed esclusivamente quella, essa sì politica ma successiva, del voto che gli elettori italiani hanno da rendere su ciascun referendum in ossequio alla sovranità popolare.
Vittorio Angiolini è costituzionalista e docente dell’Università Statale di Milano
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