Il leader della CGIL: «Non è questa la priorità quando le aziende chiudono. Ci sono 400 vertenze aperte senza soluzioni. I casi Innse? Il sindacato c’è»
Intervista a Guglielmo Epifani.
Quattrocento vertenze aperte solo sui tavoli nazionali «ma nessuna risposta», osserva il leader della Cgil Guglielmo Epifani. «Il governo crei una task force per coordinarli, per parlare alle imprese e scegliere. I problemi non si risolvono con la filosofia né con i rinvii».
Sarà un autunno «freddo» sotto il profilo dell’occupazione, ora lo riconosce anche il governo. Eppure si parla d’altro, ad esempio di partecipazione dei lavoratori agli utili di impresa. Le sembra congruo?
«Nessuno mette più in dubbio che avremo un autunno e un inverno molto difficili per il lavoro e l’occupazione, perché più si allunga la crisi per l’assenza di domanda, e più le aziende vanno in difficoltà e scaricano i problemi sul lavoro. Questa dovrebbe essere la priorità per tutti, l’obiettivo su cui concentrarsi col massimo della forza. Invece non ci siamo, si è tirato fuori in modo scriteriato e inaccettabile il tema delle gabbie salariali, si ragiona sugli utili ai lavoratori. Onestamente, oltre ad essere temi in sé opinabili, non c’entrano nulla con le vere priorità».
Lei da dove comincerebbe?
«Io ho l’impressione che si ritirino fuori alcuni argomenti per mostrare attenzione verso i lavoratori. Ma la vera attenzione verso i lavoratori oggi è affrontare i nodi della crisi industriale e delle crisi settoriali e dare soluzioni».
Sta dicendo che non è d’accordo con Tremonti?
«Onestamente parlare della partecipazione agli utili aziendali quando le aziende chiudono, non torna. Invece sulla partecipazione, sul sistema duale, sul maggiore coinvolgimento dei lavoratori alle scelte strategiche dell’impresa, la Cgil si è dichiarata da tempo disponibile, tanto più che il liberismo selvaggio ha fallito e non si può tornare ai vecchi schemi di comando. Ma oggi direi che se si vuole fare più partecipazione, le imprese devono stare più attente a non risolvere a modo loro l’uscita della crisi scaricando le conseguenze sul lavoro e l’occupazione, traslocando, delocalizzando, lasciando migliaia di persone in difficoltà. Oggi osservo che la partecipazione vera è quella che si stabilisce tra impresa, lavoratori e sindacati per salvare le prospettive, non per decidere unilateralmente e mettere le persone in mezzo alla strada.
Ma è quello che sta avvenendo.
«Infatti. Mentre in questi 15 mesi di crisi, e io non ho problemi a dirlo, da parte di tantissimi imprenditori c’è stata attenzione forte nei confronti dei lavoratori, ora molti segnali mi dicono che siamo entrati in un’altra fase. Vuoi perché si assume un altro modello organizzativo o perché si sconta il perdurare della crisi di domanda e quindi ci si prepara a un mercato più difficile nel futuro, in molte imprese sta tornando l’idea di ridurre la catena del valore, di cambiare la logica delle forniture e delle subforniture. Quindi di chiudere stabilimenti, e concentrare la produzione altrove».
Ad esempio?
«La chiusura della Cnh di Imola in quel modo, il caso della Lasme di Melfi, quello di Porto Torres, della filiera chimica che non è stato mica risolto, è stato soltanto rinviato. E poi gli interrogativi aperti per gli stabilimenti meridionali della Fiat, l’edilizia ancora parzialmente ferma, mentre i tavoli sul made in Italy non hanno dato nessuna risposta. Abbiamo 400 vertenze in discussione nei tavoli nazionali e quasi ovunque non vedo soluzioni. Siamo entrati in una fase in cui bisogna chiedere al governo di mettere più determinazione nel risolvere i problemi di crisi settoriale o aziendale. Altri governi lo fanno: la Germania con la Opel, gli Usa e la Francia con la politica di sostegno all’auto».
Anche qui sono stati dati incentivi.
«Ma non si sono tratte le conseguenze: se do vantaggi alle imprese devo chiedergli di non licenziare. Potremmo avere la beffa di imprese che chiudono stabilimenti e prendono altri fondi per aprire altri stabilimenti magari nel Nord del paese, non è ammissibile».
E infatti i lavoratori salgono sui tetti per protesta o fanno lo sciopero della fame. Si parla molto della forma, ma non dei motivi della protesta: non è una distorsione?
«Voglio dire proprio questo. Si discute molto di queste forme di lotta che quasi sempre sono assecondate, guidate, definite tra lavoratori e sindacati di categoria con la presenza del sindacato confederale. Ma non ci si pone il problema di quali risposte dare a queste crisi aziendali, come si superano. Per questo chiedo che il governo affronti tutta la partita con maggior consapevolezza: ci vorrebbe una task force che da Palazzo Chigi intervenga e coordini con maggior forza tutti i tavoli aperti. Con i rinvii i problemi non si risolvono. Bisogna parlare con l’Eni per la filiera della chimica; bisogna capire che cosa vuole fare la Fiat, c’è insomma bisogno di un governo che parli alle imprese e scelga. Bisogna passare ai fatti, non possiamo cavarcela con la filosofia».
Invece l’impressione è proprio questa, un fiorire di proposte che non si sa che fine faranno, ma intanto hanno riempito i giornali di agosto.
«Esatto, un effluvio di parole, di costruzioni simboliche, di temi lanciati quando di fronte al cuore della questione, cioè il lavoro e l’occupazione, le condizioni delle famiglie e degli anziani non c’è nulla».
Diceva che il sindacato sta dentro queste nuove forme di lotta. Eppure c’è chi ci vede la negazione del sindacato e chi il superamento, per scarsa incisività, di strumenti come lo sciopero. La sua opinione?
«Non è così, perché all’Innse il sindacato stava dentro e a fianco, a Melfi ugualmente, e così anche a Imola. Vedo in queste forme, che poi ci sono sempre state, il tentativo estremo di rispondere a una prepotenza. Siamo in presenza di chiusure annunciate senza tavoli di confronto e ragionamenti sulle prospettive: è chiaro che il lavoratore esasperato prova a richiamare l’attenzione di una società in cui il tema della centralità del lavoro purtroppo si è persa. Sono peraltro forme di lotta che hanno la caratteristica di rivolgersi contro sé stessi: si fa lo sciopero della fame, si sale sopra una gru, così si denuncia l’intollerabilità della situazione. Sono lotte che chiedono risposte».